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Italia senza Mondiale e parlano tutti: facciamo una domanda provocatoria

Ecco, ad ogni Italia che non fa il Mondiale noi produciamo saggi che guardano il dito. Nel frattempo Mancini ha detto che resta e questo conta

In questi giorni impazza il dibattito sulla Nazionale, sul futuro del calcio italiano, sugli strumenti e le prospettive di rinascita. E come ormai avviene in Italia secondo uno schema mediatico collaudato piovono tuttologi e vecchi volti noti rispolverati all’occorrenza. E’ l’audience, bellezza. Virus? Ecco una flotta di virologi che tu sei lì e ti chiedi… Ma dove erano due anni fa? Guerra? Via con i vecchi generali sui più disparati campi di battaglia. La tua domanda è sempre la stessa. E così con l’Italia fuori dal Mondiale. Parlano tutti, proprio tutti. E siccome poi non c’è niente di più democratico del calcio – davvero per tutti, come insegnano bar, piazze e piazzette di città, paesi e paeselli lungo tutto lo Stivale – ecco che ognuno può avere la ricetta salvifica.

Roberto Mancini ©LaPresse

Il problema è che, scava scava, passano i decenni e gli errori rossi o blu non cambiano (e cambia poco anche chi li sottolinea): si gioca troppo, i club ignorano le nazionali, ondate ingiustificate di stranieri, i giovani non hanno spazio, bisogna puntare sui vivai. Più o meno i passaggi della litania sono questi. Ci si sveglia inorridendo per cose che esistono da decenni e che a ondate vengono denunciate e sotterrate, dimenticate. Perché lo show deve andare avanti. E’ quando lo show ha la battuta d’arresto che lede l’immagine e mette a rischio i conti del movimento, che riparte il moto di sdegno: ah i giovani, ah i vivai, ah gli stranieri. L’ultima: non si può non dare una settimana alla Nazionale per preparare due partite che valgono un pass al Mondiale, soprattuto dopo che hai già saltato l’ultimo. Il grido di dolore punta l’indice su temi che sono ampiamente noti e dibattuti. E puntualmente irrisolti.

Ora ci sia accorge, per fare un esempio, e ci inorridisce del fatto che la Nazionale gioca con gli attaccanti della Lazio e del Sassuolo, settima e nona del campionato. Che poi sono Ciro Immobile – uno che ha segnato valanghe di gol, certamente in uno schema tattico diverso da quello azzurro e più adatto alle sue caratteristiche – e Scamacca e Raspadori, due che stando alle fibrillazioni di mercato – non fantasie, fibrillazioni – sono cercati dalle prime società di Serie A, stando alla classifica, e in Premier. E allora facciamo anche l’altra domanda, un po’ provocatoria. Facciamo giocare Ibrahimovic, Rebic e Giroud? O Osimhen e Mertens? O Dzeko, Lautaro e Sanchez? O Morata e Dybala? Sono queste le punte delle prime quattro del campionato. Se vogliamo sorridere un po’, potremmo provare solo con Alvaro Morata, (mettendo l’accento del nome rigorosamente sulla seconda lettera a) a mistificarne la nazionalità spagnola e farlo sembrare italiano. Chi dovremmo far giocare, quindi?

Italia, Mancini ha detto che resta. E questo conta

Roberto Mancini ©LaPresse

Poi c’è il tema dei tecnici di settore giovanile accusati di guardare solo al risultato e non a formare giocatori. A parte che bisognerebbe fare dei distinguo e non infascettare situazioni generalizzando. Ma da dove nascerebbe questa infausta tendenza dei tecnici di settore giovanile che guardano al profitto personale, all’idea di vincere per salire di categoria mortificando la crescita dei giocatori? Non sono forse stipendi spesso molto contenuti – attenzione, talvolta più bassi del calciatore che ti riscende dalla prima squadra con un contratto già importante – contrari al principio che la formazione vada costruita con professionalità alte e pagate il giusto, ad alimentare questo vizio di sistema? Per non parlare dei giovani che giocano in C e in D a fronte di premi e a minutaggi: scendono in campo i migliori, o il giovane è un ‘espediente’ salva bilanci?

Insomma il problema è datato, sollevarlo a cadenza regolare ci fa sentire forse migliori. Sembra che il vecchio proverbio cinesi torni ogni volta più utile. “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Ecco, ad ogni Italia che non fa il Mondiale noi produciamo saggi che guardano il dito. Nel frattempo Mancini ha detto che resta e questo conta. E le riforme strutturali? Eh, ci sarà tempo.

Giorgio Alesse

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