La Roma, i Friedkin e la normalizzazione ambiziosa

 

Il nuovo progetto della Roma rappresenta un mix tra calcio sostenibile e l’ambizione incarnata dall’ingaggio di Mourinho

C’è un’aria di attesa a Trigoria, che dura da 31 anni: dalla finale di Coppa Uefa che la Roma di Ottavio Bianchi si giocò e perse con l’Inter. Era la squadra di Cervone, Giannini, Voeller, Rizzitelli. L’ultimo palcoscenico internazionale che metteva in palio un trofeo. Il 25 maggio a Tirana è quindi un giorno cruciale per la storia della Roma, che ambisce a mettere in bacheca la neonata Conference League, unica italiana rimasta a concorrere per una coppa in Europa. C’è un’attesa che si respira addirittura da prima di ottenere questo traguardo, qualcosa in cui la Roma è rimasta imbrigliata altre volte, il sogno cullato che non si realizza.

Ryan Friedkin ©LaPresse

Basterebbe citare le ultime due, recenti, semifinali di Champions e di Europa League. Bene, stavolta è proprio questo il rischio che il club giallorosso non vuole correre. E c’è chi assicura che dentro Trigoria – là dove conta che l’humus sia quello giusto – questo rischio non si corra. Sono due signori che contano più degli altri, Dan e Ryan e Friedkin, i garanti silenziosi di tutto questo. Il clima che si respira in questi giorni negli uffici e che arriva fino al campo, alla squadra, è proprio quello di una normalità da cui diventa più facile costruire percorsi. Insomma, per questa proprietà, la finale con il Feyenoord non è un punto di arrivo, ma di partenza. E lo sarà comunque vada.

I Friedkin hanno le idee chiare: Tirana è un punto di partenza

José Mourinho ©LaPresse

Anzi, proprio il fatto di non considerarla qualcosa di straordinario – quello è giusto che animi il sentimento dei tifosi giallorossi – aiuta a darle la dimensione che serve per arrivare concentrati, affamati, pronti. I Friedkin mettono un tassello importante nel percorso imprenditoriale avviato con il loro impegno nel sistema calcio italiano e a Roma, in quello che può essere considerato il loro primo anno reale di gestione: ma non credono di porre una pietra miliare con questa finale e persino con il trofeo che è in palio, il loro progetto guarda più in alto e la normalità di questi giorni conferma quanto non considerino straordinario il traguardo. Un segnale su tutti? Avrebbero potuto cedere rispetto al loro mantra, il silenzio, per sedersi, parlare e sentirsi dire “ma quanto siete bravi”. E invece niente, va avanti la Roma, loro restano muti. Ma fanno, eccome se fanno.

Tammy Abraham ©LaPresse

Erano arrivati in agosto nel 2020, non completamente in corsa ma quasi. L’anno di apprendistato è servito per far piovere risorse finanziarie a pioggia utili a sanare e ripartire, a capire che non era Paulo Fonseca – senza fargliene troppe colpe – l’uomo con cui costruire. Da lì la madre di tutte le scelte: José Mourinho, vitale per la Roma tanto quanto la Roma si è rivelata utile al suo momento di carriera. Mourinho è l’altro garante del fatto che ora la squadra e l’ambiente non possano incorrere in una sorta di vuoto pneumatico da saturazione delle motivazioni per l’obiettivo raggiunto. Magari anche sottovalutando il Feyenoord: allora, primo punto, gli olandesi sono ampiamente rispettati tra le mura di Trigoria, i dirigenti e lo staff ne pesano anche il valore tecnico e questo farà arrivare la Roma pronta.

Poi c’è lui, lo Special: che ha già capito cosa possa voler dire alzare un trofeo a Roma, l’idea di essere il primo a farlo in assoluto – con un trofeo Uefa neonato – stuzzica il suo egocentrismo che resta, magari un po’ sopito, anche se lui dice – e bisogna credergli – che crescendo gli sta venendo la voglia di vincere per gli altri e non per sé. Ora resta da giocarsela, questa finale. Il 25 maggio tra Tirana, dove arriva tutto il mare giallorosso possibile, e Roma, dove resterà il cuore giallorosso a pulsare. Una cosa è certa: l’era Friedkin è iniziata davvero e promette molto bene.

Giorgio Alesse

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